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Tribunale di Udine, sent. 518/2015 del 2 aprile 2015 – Est. Massarelli

In generale va confermata la tesi secondo cui, per stabilire se vi è usura oggettiva, si devono considerare tutte le remunerazioni chieste al cliente a qualsiasi titolo; dunque anche le pattuizioni circa gli interessi moratori (Cass. n° 350/13). Ciò a prescindere dal fatto che esse, secondo la sistematica del diritto civile, abbiano natura di clausola penale per il ritardo o meno, e dal fatto che si tratti o meno di ordinario corrispettivo del prestito. Si tratta infatti di tesi solidamente basata su argomenti testuali. La legge n° 108/96 dispone: “Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, delle remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito.” (art. 1, comma 1). L’art. 1 del D.L. 29.12.2000 n. 394 convertito in Legge 28.02.2001 n. 24 (interpretazione autentica della legge n° 108/1996) ribadisce: “Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. Detta tesi è poi da sempre sposata e mai posta in discussione dal giudice di legittimità. In termini si sono espresse infatti le seguenti sentenze: 1) n° 5286/2000: «non v’è ragione per escludere l’applicazione (della nuova normativa, NdR) anche nell’ipotesi di assunzione dell’obbligazione di corrispondere interessi moratori, risultati di gran lunga eccedenti lo stesso tasso soglia»; 2) n° 14899/2000; 3) n° 5324/2003: «il tasso-soglia di cui alla (…) legge n. 108/1996 riguarda anche gli interessi moratori»; 4) nn°602 e 603/13: al di sopra dei tassi-soglia «gli interessi corrispettivi e moratori ulteriormente maturati vanno considerati usurari». Altre, non poche, sentenze danno poi per implicitamente presupposta la ricomprensione dei tassi moratori nel calcolo dell’usura: nn° 8742/01; 8442/02; 17813/02; 15497/05; 11632/10; 9532/10. Infine, è da ricordare che la riconducibilità anche degli interessi moratori a quelli usurari – e alla disciplina dell’art. 1815 c.c. – è idea sostenuta dalla Suprema Corte già da prima dell’entrata in vigore della legge n° 108/1996 (sentenza n° 4251/92), e che la stessa soluzione è stata seguita – sia pure in obiter dictum – dalla sentenza della Corte Costituzionale 25 febbraio 2002, n. 29. Ciò detto, occorre confutare altresì il seguente consueto argomento, addotto anche dalla convenuta ed impiegato da una parte della dottrina e della giurisprudenza anche arbitrale, per sostenere che non sarebbe mai possibile prendere in esame anche il tasso degli interessi di mora pattuito, onde stabilire se vi è clausola usuraria all’interno di un contratto: – poiché i tassi periodicamente rilevati dalla Banca d’Italia non comprendono anche gli interessi di mora praticati dal mercato (ma solo quelli corrispettivi), nessuna comparazione è mai possibile, in quanto si confronterebbero fra loro “tassi disomogenei”. La tesi non è accoglibile, perché la soglia d’usura oggettiva, secondo la legge n° 108/1996, deve essere separatamente stabilita in funzione di natura e tipologia del credito, non della natura del tasso praticato, ed è costruita sulla fisiologia, non sulla patologia del rapporto. Siccome la mora interviene successivamente alla pattuizione ed erogazione del finanziamento, ed emerge in una fase di criticità che esula dall’ordinaria fisiologia, giustamente la Banca d’Italia non deve fare oggetto delle sue periodiche rilevazioni anche il tasso medio di mora praticato dal mercato. Assumere che la Banca d’Italia dovrebbe prima realizzare un’indagine apposita, per far determinare dal Ministero il TEG medio in tema di mora, perché solo così si potrà poi realizzare un simile raffronto nei casi giudiziali concreti, non appare corretto, sia perché in tal modo si farebbe assurgere la mora ad una specifica categoria di credito con sue proprie soglie d’usura (allorché invece la mora è una semplice modifica del piano di ammortamento pattuito, dovuta al contegno inadempiente del debitore), sia perché in tal modo si verrebbe a creare una soglia specifica e più alta rispetto all’ordinario costo del credito. In pratica, si determinerebbe un “tasso medio della patologia” che genererebbe inevitabilmente un limite d’usura complessivo più elevato; ciò vanificherebbe l’intero sistema, perché il limite dell’usura crescerebbe proprio al crescere del rischio, allorché la legge intende invece proprio tutelare il cliente in tali ipotesi. Né si vede come possa prevedersi una specifica soglia media per gli interessi di mora, senza porsi in contrasto con il dettato normativo, che dispone fissarsi un’unica soglia media delle remunerazioni contrattuali a qualunque titolo convenute, e dunque valutando assieme tutte le prestazioni richieste al cliente, tra cui sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori. Né, infine, rileva il fatto che da più di dieci anni i decreti ministeriali, emanati per ufficializzare i TEGM, ripetono tralaticiamente che, secondo una remota indagine statistica della Banca d’Italia, la maggiorazione stabilita per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali. Non è conforme a legge, come detto, predicare uno specifico TEG medio per la mora. Del resto il rilievo del tasso medio di mercato per ogni categoria di riferimento è operazione che basta ed avanza ai nostri fini: il finanziatore istituzionale, con il tasso medio fisiologico praticato (rilevato dalla Banca d’Italia) evidentemente copre dapprima i costi di raccolta, struttura, organizzazione, nonché il rischio ordinario del credito; di poi integra il margine di profitto. La legge prevede appunto che la soglia di usura si collochi ben al di sopra di tale tasso medio, già remunerativo in sé per gli operatori (50% o 25% + 4 punti, ratione temporis). Ebbene, nell’ambito del differenziale fra tasso medio e tasso soglia, il medesimo finanziatore può compiutamente coprire i rischi specifici del credito, eccedenti l’ordinario, determinando l’entità delle prestazioni aggiuntive richieste a una simile rischiosa controparte, in caso di sua mora o in generale di inadempimento. Se il tasso concreto praticato dalla banca si colloca attorno al valore medio di mercato, vi sono i margini per una maggiorazione lecita in caso di mora. Se, invece, il tasso contrattualmente praticato si colloca già a ridosso della soglia d’usura, ciò significa che è già stato valutato come presente un forte rischio di insoluto alla scadenza; la banca allora non dovrebbe incontrare ulteriori costi oltre quelli il cui rischio è già coperto da un tasso corrispettivo più elevato, e non appare giustificato un ulteriore aggravio per mora o inadempimento a carico di controparte. In sostanza il sistema della legge n° 108/96 non disconosce la diversa funzione degli interessi di mora e degli interessi corrispettivi, né ha inteso precludere la pattuizione di una penale nel caso di mancato pagamento. Esso vuole invece porre un limite, massimo e perentorio, entro il quale ricomprendere tutti i costi del credito, relativi ad ogni criticità e/o patologia presente o futura. Ogni pattuizione eccedente è considerata usura, ed in ciò si qualifica il presidio imperativo di legge. Insomma, anche le previsioni contrattuali in tema di mora devono essere incluse nella verifica empirica del rispetto dei limiti d’usura; non c’è alcuna inaccettabile disomogeneità fra tale verifica e le modalità con cui vengono rilevati dalla Banca d’Italia i tassi medi di mercato. Tanto premesso, occorre però recisamente escludere che, in una verifica dell’usura che ricomprenda anche le remunerazioni richieste al cliente in caso di inadempimento, si debba procedere semplicisticamente a sommare tout court l’interesse corrispettivo all’interesse di mora: l’operazione, invocata da ultimo dagli attori anche sulla base di un parere pro veritate di tale avv. Meloni (come se bastasse il parere di un giurista a vincere una causa), risulta del tutto priva di fondamento logico, matematico e giuridico. Tale tesi è stata giustamente respinta da numerosi giudici di merito (Trib. BS 16.1.2014; Trib. MI 28.1.2014; Trib. Trani, 25.1.14; Trib. TV 11.4.14; Trib. NA 8.4.14; Trib. VR 30.4.14; Trib. Roma 3.9.2014; Trib. VE 27.11.2014; Trib. PD 27.1.2015; sentenze tutte facilmente rinvenibili sul web), compreso questo ufficio, e non si vede perché debba essere accolta. La verifica dell’usura, secondo la legge n° 108/96, va infatti condotta determinando il tasso annuo effettivo globale (TAEG) unico e complessivo concretamente pattuito, e non individuando o sommando i tassi semplici indicati in contratto. Il tasso di mora, in questo senso, costituisce solo uno di tali tassi semplici, riferito alla rata e/o al capitale scaduto e non pagato, mentre ciò che, al momento pattizio, occorre riferire alla soglia d’usura è il costo globale effettivo annuo di tutto il credito erogato, sia nello scenario di un pieno rispetto del piano di ammortamento convenuto, sia in ogni possibile scenario nel quale, a seguito dell’inadempimento ad una o più scadenze, con l’applicazione del maggiore interesse di mora ed a fronte del relativo mutamento che interviene nel piano di rimborso, si viene a modificare conseguentemente il tasso effettivo annuo globale del credito erogato. Il tasso di mora, dunque, non è un tasso effettivo in sé e per sé rilevante per la soglia d’usura, ma è un tasso semplice che integra il tasso corrispettivo, come riflesso del mutamento determinatosi nel piano di ammortamento a causa dell’inadempimento, e concorre ad individuare il costo effettivo del credito a fini anti-usura. Le più persuasive analisi di matematica finanziaria condotte in casi simili (vedi ad esempio la dottrina edita su www.ilcaso.it , qui non citabile nominativamente come dispone l’art. 118 terzo comma disp. att. c.p.c.; ma anche altre, liberamente reperibili sul web), mostrano che anche la pattuizione o la concreta applicazione di un tasso di mora di per sé superiore alla soglia non comportano necessariamente un TAEG complessivo sull’intero rapporto di credito, a carico del cliente, superiore a detta soglia, con buona pace delle tesi attoree. Come detto, infatti, con la rata che rimane insoluta alla scadenza si genera una mera modifica del piano di rimborso, con queste conseguenze: – per la parte già scaduta decorre un interesse più alto, applicato anche agli interessi corrispettivi inclusi nella rata (come detto, gli interessi di mora si computano – per i contratti stipulati fino al 2013 – con anatocismo sull’intera rata scaduta, comprensiva di capitale ed interessi corrispettivi, come consentito dall’art. 3 della Delibera CICR 9/2/00) – tuttavia, nel seguito, la capitalizzazione semplice degli interessi corrispettivi insoluti, nonché il fatto che la formula del rendimento effettivo annuo globale “spalma” gli interessi maturati alla scadenza anche sugli interessi precedenti rimasti insoluti, sono tutti fattori che moderano l’incidenza della penale per la mora nel calcolo del TAEG complessivo (secondo le consuete e corrette formule) sino a svilirla significativamente se l’insolvenza perdura nel tempo; – il superamento del tasso soglia, per il solo effetto di una pattuizione sulla mora, si può avere (ma non necessariamente) quando le rate rimangono insolute, ma intervengono flussi di pagamento che saldano tempestivamente gli interessi di mora addebitati. In questa prospettiva si deve giocoforza ribadire l’assenza di autonoma rilevanza della clausola che stabilisce le conseguenze della mora, ai fini di cui alla legge n° 108/96: l’usurarietà dipende dall’intero costo annuo effettivo del credito concesso, ivi compresi gli interessi corrispettivi e moratori, e non dalla sommatoria dei tassi semplici di questi ultimi. 

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