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Corte d’Appello di Bologna, sentenza n. 2520 del 10 ottobre 2018, Pres. Aponte, Rel. Ferrigno

Massima Avv. Dario Nardone

Il piano di rientro con contestuale espresso riconoscimento del saldo debitore indicato dalla banca, non preclude al correntista il diritto di eccepire le invalidità inficianti il rapporto sottostante e gli illeciti addebiti pregressi, poiché l’art. 1988 c.c. attribuisce alla promessa di pagamento e alla ricognizione di debito solo l'effetto di invertire l'onere della prova circa l'esistenza di una legittima causa petendi e consente, dunque, alla parte che ha effettuato tali dichiarazioni, di provare che il rapporto posto a fondamento del negozio non è sorto o è invalido.

Qualche spunto di riflessione

Accade spesso che le banche concedano ai clienti piani di rientro dell’esposizione debitoria portata dai rapporti in essere, sotto condizione, però, che venga sottoscritto un riconoscimento di debito con relativa promessa di pagamento dell’importo riconosciuto e quindi rateizzato.

Con il riconoscimento di debito, gli istituti di credito credono di assicurarsi la sanatoria di tutto ciò che è avvenuto nel periodo pregresso al piano di rientro, compresi la invalidità di clausole e relativi illegittimi addebito in conto.

Ebbene la Corte di Appello di Bologna rimarca e ribadisce come una siffatta pretesa sanatoria non abbia alcun fondamento.

Come esposto già da chiara e condivisibile giurisprudenza (Tribunale civile di Bari, sentenza 859 del 3.4.2008), è risaputo che la ricognizione di debito ex art. 1988 c.c. ha natura giuridica di promessa unilaterale e che non costituisce fonte generale di obbligazione, ma produce effetti obbligatori solo nei casi previsti dalla legge; trattasi di un negozio unilaterale recettizio, avente ad oggetto una dichiarazione di volontà con cui una parte si obbliga ad una determinata prestazione, al quale si applicano, in quanto compatibili, le norme che disciplinano la materia contrattuale (anche in materia di vizi della volontà).

Il piano di rientro verrebbe a costituire una dichiarazione-ricognizione titolata, nella quale viene richiamato appunto il titolo, e cioè la ragione del debito riconosciuto; tale negozio unilaterale, però, “…non costituisce autonoma fonte di obbligazione ma ha soltanto effetto confermativo di un precedente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi in forza dell’art. 1988 – nella cui previsione rientrano anche le dichiarazioni titolate – un’astrazione meramente processuale della causa debendi… dalla cui esistenza e validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale; con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della promessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto fondamentale non è mai sorto, o è invalido o si è estinto” (cfr. Cass. Civ., 08.05.84 n. 2800).

La ricognizione di debito, dunque, lascia impregiudicata la questione dell’efficacia sostanziale della dichiarazione, atteso che la norma presenta una valenza esclusivamente processuale: il beneficiario della dichiarazione è esonerato dall’onere di provare il rapporto fondamentale, e quindi di dare la dimostrazione dei fatti che giustificano il credito oggetto della ricognizione.

Sotto il profilo sostanziale, invece, la ricognizione non può far sorgere un’obbligazione inesistente: se nulla era dovuto, il dichiarante potrà sempre legittimamente contestare la propria qualità di debitore, con onere a suo carico di dimostrare che il credito ex adverso preteso è in tutto o in parte insussistente o deriva da causa illecita.

Tale conclusione è confermata da un autorevole insegnamento della S. C., compendiato nella seguente massima: “L’effetto giuridico che la norma di cui all’art. 1988 c. c. ricollega alla promessa unilaterale di pagamento, sia essa pura o titolata, è conseguenza dell’astrazione processuale della causa debendi, con la conseguenza che il promissario, agendo in giudizio per l’adempimento dell’obbligazione, ha soltanto l’onere di provare la promessa unilaterale di pagamento e non anche l’esistenza del rapporto giuridico che sta a fondamento della promessa stessa e di cui l’obbligazione, assunta nel contenuto della dichiarazione negoziale unilaterale, è elemento strutturale; è stabilita, cioè, a favore del promissario una relevatio ab onere probandi, restando invece totalmente a carico del promittente l’onere di provare l’inesistenza, l’invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale, sia questo menzionato o meno nella promessa unilaterale di pagamento” (cfr. Cass. Civ., 10.03.81 n. 1351 e, più di recente, Cass. Civ., Sez. I, 09.02.2001 n. 1831).

Ne consegue che il dichiarante può sempre dimostrare l’invalidità totale o parziale del rapporto fondamentale.

Né può ritenersi che la ricognizione di debito titolata contenuta nella scrittura costituisca una vera e propria confessione stragiudiziale, con l’ulteriore conseguenza che essa non solo sarebbe efficace sotto il profilo sostanziale, ma sarebbe altresì revocabile solo per errore di fatto o violenza (ex art. 2732 C. C.); ciò perché la confessione ha il contenuto di una dichiarazione non di volontà ma solo di scienza, che ha per oggetto fatti obiettivi e non rapporti giuridici e che, quindi, è qualificabile non come negozio giuridico ma in termini di mero atto giuridico, quantunque ad esso venga riconosciuto l’effetto di prova legale (cfr. Cass. Civ., 18/02/77 n. 735).

Concetto ben espresso da Tribunale di Lecce, 2 dicembre 2013, Est. Rosanna Giannaccari: “Occorre in primo luogo, operare una corretta distinzione tra le figure giuridiche della ricognizione di debito titolata e la confessione. La prima (disciplinata dall’art. 1988 c.c.), ha per oggetto, infatti, rapporti giuridici, oppure opinioni o valutazioni e comporta la presunzione fino a prova contraria del rapporto fondamentale, mentre la seconda (disciplinata dagli artt. 2730 e segg. c.c.) ha per oggetto fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte (Cass. 30 gennaio 1975, n. 363). Partendo da questa distinzione, la giurisprudenza giunge, quindi, ad affermare che la promessa di pagamento, anche quando sia titolata, perché contenente l’indicazione della “causa debendi”, non assume per questo natura confessoria. Sicché, anche in tale ipotesi vige la regola – stabilita dall’ultima parte dell’art. 1988 c.c. – secondo cui il promittente può dimostrare l’inesistenza della causa e, perciò, la nullità della promessa; mentre le particolari limitazioni di prova poste dall’art. 2732 c.c. (impossibilità di revocare la confessione non determinata da errore di fatto o da violenza) per la confessione, potranno trovare applicazione quando, nel contesto dello stesso documento, accanto alla volontà diretta alla promessa, coesista la dichiarazione di fatti storici dai quali scaturisce il rapporto fondamentale (Cass. 20 gennaio 1995, n. 629; 19 maggio 1975, n. 1972). Nel caso in esame, le dichiarazioni della P. di cui alle comunicazioni del 27.3.2002 e del 0.12.2002 riconoscono l’esistenza del debito ma non possono avere valore confessorio rispetto alla corresponsione di interessi asseritamente usurari, ovvero avente causa illecita . (Cassazione civile sez. III 16/09/2013 N.21098). E’ evidente che è inefficace la promessa di pagamento o la ricognizione di debito, la cui fonte sia un negozio nullo”.

 

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