Pubblicato il: 01/09/2024

Le risorse che servono per la prossima manovra finanziaria sono ingenti: si stima una misura tra i 25 e i 27 miliardi. E, fra le varie ipotesi per reperirle, il Governo sta valutando proprio quella di tagliare l’Assegno Unico e Universale (AUU).

Questa misura – istituita dal Governo Draghi con il D. Lgs. n. 230 del 21 dicembre 2021 – è una prestazione erogata mensilmente dall’INPS a tutti i nuclei familiari per ogni figlio minorenne a carico e, in presenza di determinati requisiti, per ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento dei 21 anni.
È riconosciuto anche per ogni figlio a carico con disabilità, senza limiti di età.

L’Assegno Unico spetta a tutti i nuclei familiari, indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori (non occupati, disoccupati, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi e pensionati) e senza limiti di reddito.
L’importo, però, è commisurato all’ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente); tuttavia, nel caso in cui non si volesse presentare un ISEE, è comunque possibile fare domanda e ottenere l’importo minimo per ciascun figlio.

Nel 2022, la spesa pubblica per l’AUU è stata di 13 miliardi. L’anno scorso è salita a 18 miliardi. Quest’anno, probabilmente, peserà sulle casse dello Stato per circa 20 miliardi, considerato che nel primo semestre l’INPS ha segnato già quasi 10 miliardi. Le famiglie coinvolte sono 6,6 milioni per 10 milioni di figli.

Da gennaio 2024 l’importo dell’AUU è cresciuto per effetto della rivalutazione del 5,4%: ad esempio, l’assegno minimo che spetta a chi dichiara un ISEE superiore a 45.575 euro o non dichiara l’ISEE, è passato dai 54,10 euro del 2023 a 57 euro nel 2024. Un ISEE basso dà invece diritto a un assegno unico di quasi 200 euro per figlio, che in un anno fanno 2.400 euro.

La soluzione che si prospetta sarebbe quella di tagliare l’assegno base da 57 euro a figlio, che oggi è corrisposto alle famiglie che non presentano l’ISEE o ne hanno uno troppo alto, e destinare più risorse alle famiglie molto numerose, con disabili, “con una storia di lavoro radicata in Italia”.

A ciò si aggiunga che, nel novembre 2023, l’Europa ha messo l’Italia in procedura di infrazione per il requisito dei 2 anni di residenza chiesto agli stranieri. Infrazione che, nello scorso mese di luglio, si è trasformata in deferimento alla Corte di Giustizia Ue. 

Nella specie la procedura d’infrazione UE è stata motivata dalle seguenti considerazioni:
 > l’articolo 45 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) vieta la discriminazione dei cittadini dell’UE, a motivo della loro cittadinanza, in un altro Stato membro dell’Unione per quanto riguarda l’accesso all’impiego e le condizioni di lavoro;
> tale disposizione del trattato è ulteriormente dettagliata nel regolamento (UE) n. 492/2011 relativo alla libera circolazione dei lavoratori, il cui articolo 7, paragrafo 2, specifica che i lavoratori mobili dell’UE dovrebbero beneficiare degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali. Sono ivi comprese le prestazioni familiari;
> infine, a norma del regolamento (CE) n. 883/2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, i lavoratori mobili dell’UE dovrebbero essere trattati allo stesso modo dei cittadini dello Stato membro in cui lavorano e hanno diritto allo stesso livello di prestazioni familiari, anche per i figli a carico che risiedono in modo permanente in un altro Stato membro.


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